"...L’obiettivo è stato quello di creare un lavoro artistico estremo, che non tenesse conto delle convenzioni (sia della poesia che della canzone) e che affrontasse alcuni importanti temi filosofico-esistenziali, senza paura di non piacere a un pubblico. Puri e liberi. Senza compromessi. Con la convinzione però che, trattandosi di temi che riguardano la nostra esistenza e quindi tutti noi, avrebbero bene o male incontrato il favore di molti, se non di tutti..." da Vi diremo le parole che non volete sentire

mercoledì 8 giugno 2016

Cap. 12 "La prima di tutte le donne" di Piero Olmeda

12 - Contento di sentire il rumore del tempo che passa

Dapprima non vide nulla e non sentì alcun rumore. Le imposte erano chiuse e dall’esterno filtrava ben poca luce. Fece un passo avanti, un altro ancora. Si fermò quando sentì un rumore di vento che andava e veniva. 'Ma come poteva essere?' si chiese. Dentro una casa con le finestre chiuse non ci poteva essere del vento. Sentiva qualcosa scricchiolare e gli sembrava che lo facesse al ritmo del vento. D’un tratto però tutti i rumori cessarono e un brivido gli corse lungo la schiena. Si disse che doveva essere forte. Si ricordò di qualcuno che aveva scritto: è facile per i forti essere forti.
La voce esplose nel silenzio, sonora come una raffica di grandine, dolorosa sulla faccia: “Che cosa fai qui? Che cosa vuoi?”
Colto alla sprovvista, non seppe rispondere se non con qualche suono inarticolato dalla bocca. Poi fece un passo indietro ed anche lui esclamò: “Che cosa fai? Che cosa fai qui?”
“Ah, Ah, tu lo chiedi, che sei in casa mia! Perché non ritorni da tuo padre?”
“No... io... volevo dire... che cosa fai da solo seduto al buio?”
“Già, che faccio, bene, ecco: penso. È la cosa che faccio meglio. Pensare. Guardare. Il mondo che scorre intorno a me. Senza entrare nel flusso. Dall’alto. Da sotto. Dal di fuori.”
“Ma non sei morto?”
“Ti sembro morto!? Sono fin troppo vivo, è per quello che non posso uscire. Di colpo mi sento un po’ più vivo. Non voglio essere vivo... voglio tornare a essere come ero prima.”
“E come eri prima?”
“Lontano. Distaccato. Non felice, che quello è impossibile, ma quieto, contento di sentire il rumore del tempo che passa...”
“Non sei stato contento di avermi conosciuto?”
Questa volta il vecchio non rispose subito, esitò, chiedendosi forse che cosa poteva dire e che cosa non dire, quale lingua doveva usare per farsi comprendere. Sorprendentemente disse:
“Hai ragione, forse sono morto, o meglio ero morto, perché mi stavo muovendo in cerchio, senza mai cambiare, senza mai partire per la tangente. Hai ragione. Anche adesso però, mi basta guardare il muro che ho davanti.”
Il bambino fece un passo avanti, seguito da un altro passo, prese il vecchio per il braccio e disse: “Perché non andiamo fuori a giocare con il pallone?”
“...Il pallone?”
“Sì.”
Provò a ridere, ma siccome non lo faceva da tanto tempo, gli uscì dalla bocca una serie di suoni gracchianti e stonati.
“Non ti ricordi? Io sono cieco!”
“Va bene, allora gioco con gli occhi chiusi. Così siamo pari.”
Questa volta rise con più convinzione e il suono che ne uscì fu un attimo più melodioso. Dopo un serie di borbottii si alzò a fatica, si voltò verso la porta, disse: “Vieni con me. Attento a non sbattere contro i mobili.” Detto questo, per una strana ironia della vita, lui, cieco, accompagnò il bambino, che vedeva, verso la porta, l’aprì, lo condusse verso quella parte della spiaggia vicino al mare dove la sabbia era più dura e disse: “E il pallone?”


La prima di tutte le donne

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